I pilastri di una seria e necessaria riforma universitaria

Sono talmente innamorato e rispettoso della nostra università che mi sento in dovere di alimentare un dibattito su una sua possibile riforma per rilanciarla arrestando quello che sembra un inesorabile declino. Parlo di declino non a caso, ma sulla base di una personale esperienza che mi ha fatto vedere, nel corso degli ultimi tre lustri, scadere il livello qualitativo di atenei che, nel recente passato, erano all’avanguardia nel mondo pur confermandosi, nel paese, alcune università di eccellenza. Ma proviamo a mettere in fila le cose. 

IL SISTEMA DEL 3+2 NON HA PRODOTTO QUALITA’

La riforma dei percorsi di studio con l’introduzione delle lauree brevi e di quelle magistrali, non ha prodotto qualità, anzi. Se lo scopo nobile era quello di aumentare il numero dei laureati, cercando di attestarli su parametri europei, la realtà che si presenta ai nostri occhi è molto diversa. Lauree brevi con livelli di approfondimento molto “annacquati”, proliferazione di corsi di laurea di dubbia valenza, forti disparità tra corsi di laurea simili in atenei diversi. Pochissimi corsi brevi di livello internazionale, capaci di creare competitività nei e dei nostri giovani, dove si fanno tesi di lauree simili a temi o tesine compilative di dubbia valenza (in alcuni corsi di laurea non si discutono neanche più), un appiattimento verso il basso preoccupante connesso anche a un lassismo ispirato alla legge “facciamo tanti numeri, alla qualità ci pensiamo dopo”. Forse una riproposizione di lauree a ciclo unico, con diversificazione di indirizzi al proprio interno, potrebbe contribuire a una ripresa di valore dell’alta formazione, certificato anche da tesi di laurea che devono acquisire di nuovo la valenza di lavori scientifici e di ricerca. 

MODIFICARE IL SISTEMA DI RECLUTAMENTO

Da “vittima” delle trasformazioni del sistema di reclutamento avvenute in quindici anni, ho ben chiaro quanto il sistema di reclutamento di ricercatori e docenti sia fondamentale per contribuire alla serietà e alla qualità dell’alta formazione. Tra correnti di pensiero diverse, occorre accordarsi su quale sia il miglior metodo di selezione. Le abilitazioni scientifiche nazionali non hanno ridotto una certa tendenza al localismo o alle cordate tipiche dell’accademismo nazionale. Sono un problema? Si, specie quando nessuno paga le responsabilità di scelte forzate o sbagliate. Perché non esiste un serio sistema nazionale di valutazione della produzione scientifica, base fondamentale in molti altri paesi del mondo? Perché è così difficile immettere forze nuove e giovani all’interno degli atenei, rendendo anche più agevole il trasferimento di conoscenze alle nuove generazioni? Non sono problemi da sottovalutare. 

RIPENSARE IL CONCETTO DI UNIVERSITA’ DI MASSA

Quando parliamo di università parliamo di “alta formazione” che, come tale, distinguendosi dalle scuole dell’obbligo, non deve necessariamente coinvolgere tutti. Le tasse di accesso agli atenei italiani sono, in media, abbastanza basse rispetto al resto d’Europa. Perché, allora, non aumentarle per alimentare un sistema di borse di studio autentiche capaci di instaurare meccanismi premiali per gli studenti più meritevoli? Anche dalla competizione tra intelligenze passa l’aumento della qualità, connesso alla non dispersione di risorse che, nel tempo, ha frazionato il potenziale positivo degli atenei e delle politiche connesse all’istruzione e alla ricerca universitaria. 

ISTITUIRE SCUOLE DI DOTTORATO

Gli accessi ai dottorati di ricerca sono spesso ostacolati dalla limitatezza del numero delle borse di studio. Così facendo, molte intelligenze spendibili restano fuori dalla possibilità di guadagnare i più alti titoli di studio. Si blocca così la possibilità di creare un clima competitivo al rialzo tra le teste pensanti più brillanti del paese. Trasformare i dottorati in scuole di dottorato, con relativo accesso anche su base concorsuale, ma più ampio, a mio avviso sarebbe un’altra delle chiavi di ritorno al successo. 

RITORNARE ALLE FACOLTA’

L’eliminazione delle Facoltà volute dalla Legge Gelmini con il mantenimento dei soli dipartimenti è stata un disastro. Concepita (ma sarà vero?) come forma di integrazione tra strutture didattiche e strutture di ricerca, in realtà ha contribuito alla creazione di macro-aggregati confusi e inefficaci. Il ritorno alle facoltà, tradizionalmente radicate nel sistema universitario italiano, potrebbe essere un altro modo di creare sostegno alla didattica, avviando magari all’insegnamento anche figure (gli assistenti universitari) spendibili poi nel mondo dell’istruzione secondaria. 

Le cose da fare potrebbero essere molte e ci riserviamo di ritornare sull’argomento. Ma intanto qualche seme è piantato. Buon dibattito a tutti.

Leonardo Raito 

Non facciamo perdere altro tempo alla scuola

Sto leggendo, negli ultimi giorni, diverse prese di posizione in merito alla ripartenza delle scuole a settembre. Credo vivamente che un ritardare ancora le attività di didattica in presenza sarebbe un errore gravissimo.

L’esperienza della scuola è un’esperienza che non si può ridurre al solo trasferimento di contenuti, ma anche a una crescita dei ragazzi come soggetti civili. E i soggetti civili, per costruire una propria coscienza hanno necessità di relazioni umane, vive, calde. Relazioni che solo il contatto (pur con tutti i rispetti di distanziamenti del caso) può garantire.

Per carità di Dio, la didattica a distanza è stata un’esperienza che, nella difficile fase dell’emergenza, ha contribuito a tenere viva la scuola e i suoi compiti. Ma pensare che questa possa sostituire, in toto, il valore del trasferimento e dell’apprendimento in presenza, mi pare quanto meno utopistico.

In questo contesto di ripartenza necessaria, lo dico con rammarico, mi aspettavo di più dagli esperti tecnici che hanno formulato le ipotesi per la scuola. Mi aspettavo, in primis, che l’obiettivo chiaro fosse la ripresa delle attività in presenza. Per ottenere questo imprescindibile obiettivo, sarebbe stato possibile anche attuare delle norme transitorie: perché, ad esempio, non consentire lo sdoppiamento dei gruppi classi co attività laboratoristi assistite, concordate con i docenti, e magari gestite da tecnici o da educatori?

Perché non studiare dei dispositivi di protezione alleggeriti per gli studenti e i docenti che magari potessero superare i problemi legati al distanziamento sociale? Perché non mettere immediatamente in circolo risorse per investimenti urgenti in edilizia scolastica, per costruire aule in più, scuole nuove, laboratori, in una logica di programmazione che tendesse anche alla media scadenza?

In sostanza, credo che non ci sia altra strada che riaprire. Penso che, più del covid, (ovviamente vanno rispettate sicurezza e incolumità di ragazzi e personale) potrebbe influire sul futuro già ombroso della società italiana un buco formativo di due anni!