Quando nei Democratici di Sinistra, si decise di dar corso alla fondazione del Partito Democratico, io ci arrivai dalla posizione mediana. Nei Ds, infatti, in quello che doveva essere l’ultimo congresso della storia del partito, si presentavano tre mozioni. Quella del segretario Fassino, era la mozione entusiasta del progetto: si al Pd, si alla fusione, avanti tutta. Quella di Mussi, era quella contraria: no al Pd, si continui a collaborare in una formula ulivista ma con la distinzione dei partiti e dei ruoli. Io facevo parte della mozione minoritaria, che ormai ricorderanno in pochi, e che era legata a Gavino Angius e Mauro Zani, e che diceva si a un Pd che sia una federazione dei due partiti e ancoraggio fermo al socialismo europeo. Quella mozione minoritaria risultò maggioritaria solo in una federazione italiana, a Rovigo. Lo fu per tattica, per ideale, perché in quel congresso si saldarono opzioni diverse. Angius e Zani dicevano che sarebbe stato drammatico che il Pd fosse diventato solo una fusione a freddo tra due gruppi dirigenti, che un partito nuovo nato così sarebbe diventato, soltanto, un covo di correnti. Non avevano torto.
Poi ci siamo fatti coinvolgere: ci piaceva l’idea delle primarie, ci piaceva la vocazione maggioritaria richiamata da Veltroni, così ancorata al sistema bipolare in cui siamo nati e ci siamo politicamente plasmati; quella forma per cui si confrontano due idee e quella che prende più voti vince ci sembrava quella più democratica e chiara. Tuttavia, il collante del centrosinistra, che era stato per lustri la repulsione verso un uomo, Berlusconi, non aveva mancato di permeare anche i gruppi dirigenti del Pd. Poco si era fatto per aprirsi alla società civile. E poi già nel 2007 gli scricchiolii nel governo Prodi avevano cominciato a far puntare l’indice contro il Pd, in una ricerca di colpe che sembrava una caccia alle streghe destinata, ciclicamente, a tornare. Il governo cadde e si tornò a votare nel 2008 con Veltroni candidato premier, con un accordo aperto solo all’Italia dei valori di Di Pietro. Il Pd prese il 33%, il suo massimo storico alle politiche, ma non fu sufficiente. Il paese tornò al centrodestra e a Berlusconi, destinato però a una legislatura drammatica che avrebbe prodotto poi, col paese sull’orlo del fallimento, il governo Monti. Il Pd, intanto, continuava a perdere consensi. Lotte interne, scarsa capacità di programmare iniziative e proposte politiche, facevano attestare il partito su un 25-27% che era molto lontano dalle aspettative dei fondatori.
Poi è arrivato Renzi, e a noi giovani sembrò quello slancio di cui il partito aveva bisogno per superare una situazione stantia in cui dirigenti formati nella prima repubblica, addirittura nella guerra fredda, imponevano linee e percorsi, badando sempre a salvaguardare spazi di potere per sé stessi e per i propri sodali. La comunicazione aggressiva e innovativa, gli slogan come “rottamazione”, quello slancio di decisionismo, lo spazio riservato a una giovane classe di amministratori locali, già testati dalle prove sul campo (elezioni di vari genere) ci sembravano caratteristiche utili per risalire, per rinnovare, per guardare avanti con fiducia. Ricordo bene quando Renzi, nell’ottobre 2012, venne a Rovigo, tra un tripudio di folla che, per un politico, non si vedeva da decenni. Pensavamo che battere Bersani alle primarie sarebbe stato l’occasione per avere uno slancio decisivo per le elezioni di primavera. Come sempre però, non so se perché un organismo ha comunque degli anticorpi o per altro, l’apparato optò per Bersani, anche se solo al ballottaggio. E fu un errore strategico.
Le elezioni del 2013 furono una tragedia. Tutti i sondaggi ci davano avanti largamente. Nessuno poteva prevedere il risultato dei Cinque Stelle, la tenuta del Centrodestra. Solo il premio di maggioranza garantito dal Porcellum ci consentì di essere maggioranza di governo. Ricordo l’umiliante performance in streaming di Bersani che cercò l’accordo con i grillini venendo, de visu, ridicolizzato e preso in giro. Ricordo l’impallinamento di Prodi come presidente della repubblica. Il governicchio Letta, lento e impacciato e poi le Europee del 2014 dove superammo il 40%. Renzi, all’apice del suo consenso, divenne premier con una maggioranza variegata e iniziò la sua storia da premier narrante, le forzature, il partito non più ditta, i provvedimenti che la sinistra radicale considerava reazionari. Ci furono le uscite di Speranza, dei Fassina, D’Alema, Bersani, per cui, lo confesso, non ho versato lacrime. In quel momento valevano soltanto come il rifiuto di Renzi, il segretario eletto democraticamente alle primarie.
Il referendum costituzionale del 2016, che Renzi ha trasformato, con un errore strategico, in un referendum sulla sua figura e sul suo governo, ha segnato il punto di non ritorno. Accuse, ripicche, e poi un nuovo segretario, debole, come Zingaretti.
Le elezioni del 2018 sono state quelle del minimo storico. Se avessimo pensato, undici anni prima, che avremmo fondato un partito che non arrivava neanche al 20%, non so se ci saremmo impegnati tanto. Non so se avremmo dedicato giorni e giorni a riunioni, incontri, tesseramento, ad attaccare manifesti. Non lo so. L’elettorato, con chiarezza, aveva deciso che dovevamo fare opposizione. Forse, partendo da lì, saremmo tornati ai territori, al parlare con la gente, al capire i nostri errori.
Invece no. Salvini realizza l’autorete clamorosa facendo cadere la maggioranza gialloverde e il Pd, prontamente, si apre all’accordo con i grillini che fino a quel giorno ci hanno coperti di insolenze irripetibili, offese, cose vergognose. Possibile governare con loro? Chissà, intanto è stato possibile farci un governo e intanto Renzi prepara i suoi gruppi in parlamento e intanto Calenda esce e fonda un partito nuovo. E intanto, intanto intanto.
Non posso che dirmi disorientato dall’incedere degli eventi.