Enrico Berlinguer fu o non fu un leader moderno? E il suo messaggio è un messaggio attuale per una politica che ha subito profonde trasformazioni rispetto agli anni 80? Qualche riflessione senza pregiudizi su uno dei leader più amati del comunismo italiano.
L’11 giugno 1984 moriva a Padova, dopo un’emorragia cerebrale seguita a un drammatico comizio per la campagna elettorale per le europee, Enrico Berlinguer, il segretario del Partito Comunista Italiano, amatissimo dalla sua base, l’uomo che negli anni settanta, a fronte di una cristallizzazione della scena politica italiana, influenzata dalla conventio ad excludendum, era riuscito con le sue proposte a restituire centralità al Pci fino a far sognare l’approdo al governo sulla scia dello straordinario risultato elettorale del 1976, quando i comunisti conquistarono il 34,37% dei consensi. Sono passati trentaquattro anni e Berlinguer viene ancora oggi citato, richiamato come riferimento.
Ma quali furono le sue proposte più significative? Sicuramente l’elaborazione più alta fu quella che si concretizzò nel compromesso storico e nell’eurocomunismo. La prima, fu teorizzata a seguito del colpo di stato cileno. Berlinguer riteneva che la democrazia e le istituzioni repubblicane corressero lo stesso rischio che avevano corso quelle cilene, e risultava pertanto fondamentare un accordo di collaborazione tra le tre grandi forze popolari italiane (cattolici, socialisti e comunisti), per avviare una stagione di rinnovamento e salvaguardia delle stesse basi democratiche del paese. Il compromesso storico avvicinò i comunisti a nuove responsabilità, e fece ritenere che il Pci fosse l’unica forza in grado di interpretare il desiderio di cambiamento e di riforma di cui il paese, sulla scia dei sommovimenti seguiti al 1968 che avevano stravolto il rapporto tra partiti e cittadini e nel pieno della stagione del terrorismo, aveva bisogno. Ci furono diversi tentativi di avvicinamento, ma la Dc respinse sempre, fedele a un atlantismo che aveva radici profonde (o sotto scacco a causa del rapporto o della volontà degli Stati Uniti?) la partecipazione dei comunisti all’esecutivo. Collaborazioni esterne, patti di consultazione e altre forme di dialogo, finirono per logorare in profondità anche la base stessa comunista, che perse col tempo la fiducia nel concretizzarsi di una speranza e Berlinguer fu costretto ad abbandonare la parola d’ordine del compromesso, per inseguire una poco chiara alternativa che si doveva basare su un rinnovato accordo con i socialisti, passati ormai, con Craxi, su posizioni sempre più anticomuniste. L’eurocomunismo fu invece dettato dalla ricerca di una via autonoma per i comunisti occidentali, sempre più lontani, nel modo di pensare e di vivere la democrazia, dai paesi del socialismo reale. Poteva trattarsi di una prospettiva interessante la cui riuscita, tuttavia, dipendeva dalla capacità dei partiti comunisti europei, di riformarsi, per cercare approdi più avanzati, ricercando collaborazioni con le formazioni non marxiste. Su questo, tuttavia, Berlinguer non riuscì a spingere a pieno l’acceleratore, nonostante le prese di posizioni critiche sull’Unione Sovietica e i paesi dell’Est, dettate dalla consapevolezza che le società occidentali creavano precondizioni diverse e più favorevoli allo sviluppo di vie nazionali al socialismo. Berlinguer fu, fino alla fine, comunista e non riconoscerlo significherebbe fare un torto alla sua idealità. E un bilancio complessivo della sua figura non lo si può fare in modo autonomo rispetto alla storia del suo partito.
Qualcuno ha chiamato Berlinguer un leader solo e triste. Triste forse perché rideva poco, conscio com’era del grande senso di responsabilità che gravava sulle sue spalle, in momenti difficili per il paese, in cui le sfide nazionali e internazionali necessitavano di importanti prese di coscienza, oltre che di capacità di elaborazioni teoriche ma destinate a fondersi col necessario pragmatismo. Eppure, alcuni suoi messaggi vanno considerati di valenza universale, come il richiamo profondo a una questione morale che mai, come in un paese travolto dalla corruzione e che di lì a qualche anno avrebbe visto lo stravolgimento legato a tangentopoli, avrebbe perso la sua attualità.
Le contraddizioni del Berlinguer leader vanno tutte inserite nel contesto delle contraddizioni di un partito che fu anche un luogo di elaborazione e di culto civile, un partito in cui, dietro la maschera di solidità certificata dalla pratica del centralismo democratico, covavano dibattiti profondi sul senso e sull’attualità dell’essere comunisti in Italia. Negli ultimi anni della sua vita, ad esempio, stando anche alle più recenti testimonianze pubblicate (come ad esempio i diari di Luciano Barca) emerge sempre più la differenziazione, in seno al gruppo dirigente comunista, della componente migliorista, più attenta all’idea di una collaborazione e di un dialogo con i socialisti di Craxi, e di passi avanti verso un approdo riformista, che si sarebbe concretizzato soltanto alla morte del leader sardo. Gli mancarono coraggio, avvedutezza, capacità di anticipare i tempi? Non lo sapremo mai.
Fu Berlinguer un leader moderno? No, non mi pare che l’affermazione sia azzeccata. Berlinguer seppe interpretare alcuni limiti della modernità che attraversava il paese, ma lo fece sempre con una ritualità che si muoveva negli argini di un partito di tradizioni solide. Nel mondo impregnato di ideologia, non so se sia stato un pregio o un limite. Resta comunque la certezza che agì sempre perché credeva nel ruolo della politica e dei partiti. Già questo, in un paese che ha perso ogni interesse per il dibattito e per le regole della democrazia, pare un pregio da rimpiangere.