Sconfiggere la piaga delle morti bianche con formazione e detassazione degli investimenti

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Le morti bianche continuano a essere una piaga drammatica per il nostro paese, con dati che, nonostante stabilizzazioni o leggeri cali, continuano a essere lontani da quelli dei paesi più avanzati. Recentemente il ministro Di Maio ha prodotto dati che segnano 389 morti nei primi cinque mesi dell’anno. E anche il Veneto e il Polesine presentano casi poco incoraggianti. Nella nostra regione i dati registrati a maggio dall’Osservatorio Indipendente di Bologna, vedono 29 morti, con le province di Verona e Trevisoin cima a questa triste classifica regionale, con 8 casiper ciascuna provincia, seguite poi Venezia con 6 morti bianche, 3 a Vicenza, 2 a Belluno, 1 a Padova e 1 a Rovigo. E secondo la Cgil, il dato dei 29 morti sul lavoro andrebbe aumentato di circa il 30% per comprendere anche coloro che muoiono in itinere, nel tragitto casa-lavoro.

 

Un tema con dati del genere evidenzia una autentica urgenza per il nostro paese.

 

E allora che fare? La politica dovrebbe interrogarsi di più su questo fenomeno, e cercare di formulare proposte e indirizzare strade in grado di invertire la tendenza. Quali? Qualche anno fa si era fatta largo una proposta per combattere questa grave emergenza, e considerando che soprattutto le piccole e medie imprese facevano fatica a investire nella sicurezza dei lavoratori, si era pensato di proporre la detassazione degli utili investiti dalle aziende in attività di sicurezza per i lavoratori. Agevolazioni fiscali che costituirebbero un costo per lo stato, ma presumibilmente un investimento di minore portata rispetto ai costi sociali ed economici sostenuti dalla collettività per l’elevato numero di morti bianche. Ma una detassazione non può essere sufficiente senza la costruzione di una maggiore sensibilizzazione verso una cultura della sicurezza. Ecco quindi che percorsi di formazione costante (anche questi detassabili) potrebbero aiutare a combattere una piaga pericolosa e un’azione che cominci, per tutti, dalle scuole, potrebbe aiutare a instillare nei futuri lavoratori un livello di attenzione forse maggiore rispetto a quello attuale. In questa direzione, anche il Partito Democratico potrebbe riprendere una linea politica in grado di riportare al centro le persone e i propri diritti alla sicurezza: confrontarsi con i sindacati, con l’Inail, con lo Spisal per effettuare proposte concrete per riportare il paese a livelli di civiltà consolidati. Quanto ai centri di formazione e di addestramento alla sicurezza, anche in provincia di Rovigo ho visto centri all’avanguardia nazionale. Si tratta di esempi virtuosi che andrebbero sostenuti e incrementati. Perché non cominciare?

Matteo Salvini, un leader vero (…)

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Premessa

Anticipo, per evitare la possibile espulsione dal mio partito o la messa in stato d’accusa, che questo articolo non è una sviolinata al ministro dell’interno né una condivisione di posizioni e atti delle prime settimane di governo. Rappresenta piuttosto un tentativo d’analisi di un percorso politico di un leader che sta attirando consensi (magari strappandoli a noi), in un periodo in cui l’elettorato guarda con simpatia agli uomini forti (presunti o tali) in campo populista e sovranista, visti come risposta a istituzioni europee che sembrano lontane dai cittadini e incapaci di comprendere l’esigenza di un’Europa dei popoli in contrasto con un’Europa delle burocrazie e della finanza. Ho sempre ritenuto che studiare, ipotizzare, fornire scenari, sia il modo migliore per fare politica, per cercare di capire fatti ed errori, per migliorare azioni e strategie. E’ questo, in primis, lo scopo della riflessione che propongo 

Una delle poche certezze delle prime settimane del governo Conte-Salvini-Di Maio è che l’uomo forte dell’esecutivo è Matteo Salvini. Di certo non si tratta di un politico che incontra le mie simpatie, ma non si può non riconoscere che, se la Lega ha raggiunto un risultato così importante e storico, gran parte del merito va data al suo leader, alle sue strategie e alle capacità di interpretare i tempi, in un momento in cui il paese, sempre più arrabbiato, sta cercando di appigliarsi alle ultime speranze, a chi meglio di chiunque altro ha saputo porsi come modello di anti establishment, a chi sa cavalcare le esigenze di una piazza che pare affezionata agli uomini che sanno alzare la voce e farsi sentire, specialmente sugli argomenti di interesse di un popolo sempre meno avvezzo ai temi di politica “alta” ma più vicino alla concretezza di tutti i giorni.

Non sappiamo ancora come andrà a finire questa esperienza, e se i primi annunciati provvedimenti salviniani, che ad alcuni hanno fatto gridare allo scandalo, otterranno i prospettati risultati concreti, ma occorre spiegare come, quei provvedimenti, stiano incontrando favore nella gente e vengano visti come risposte a problemi più volte segnalati. Siamo tornati spesso sui temi dell’immigrazione e della sicurezza, percepita o effettiva, e abbiamo intrecciato questi temi con le paure e la rabbia della gente. Quando dicevo che, facendo campagna elettorale porta a porta, emergeva in modo chiarissimo che l’immigrazione era il tema centrale della tornata di voto, lo facevo evidenziando che questo tema rappresentava ormai un argomento trasversale e riconosciuto da tutti, indistintamente, come centrale. L’immigrazione ha cambiato la percezione della sicurezza, specie nelle periferie e nelle piccole comunità, dove le presenze di richiedenti asilo e altre pattuglie di stranieri, sradicando il senso di appartenenza ai territori e ai propri usi, sta stravolgendo le dinamiche sociali, i rapporti tra famiglie, i comportamenti delle persone. Quando un fenomeno sociale complesso viene considerato un problema sociale, non possono che scattare campanelli d’allarme; si estremizzano i rapporti, si esagerano gli aspetti negativi, forse anche a causa di una giustizia la cui operatività ed efficacia viene considerata scarsa. Forze dell’ordine vanificate nel loro lavoro, non certezza della pena, sconti di ogni genere, rendono il sistema paese poco sicuro, almeno per i cittadini. Ecco perché Salvini, con i suoi toni forti, con parole d’ordine semplici e alla portata, sta mietendo successi.

Salvini ha preso in mano un partito in forte sofferenza a causa dei problemi del cerchio magico bossiano. Ha saputo far superare alla Lega i postumi dello scandalo per rimetterla in carreggiata, con la chiara idea di dare un connotato che superasse il regionalismo per proiettare il “movimento-Lega” in dinamiche più nazionali. Ha spostato il partito da posizioni federaliste a posizioni sovraniste, ha portato la Lega dal rispetto di un’Europa dei popoli intesa come alternativa allo stato centralista a una posizione di contrasto all’Europa e alle sue politiche sulla scia di un ritrovato amor patrio. Tutto questo è stato poi accompagnato da una presenza costante in mezzo alla gente, da prove di forza che l’hanno portato a scontrarsi prima nel partito, poi nella coalizione. Eppure Salvini ha saputo guidare con arguzia le trattative per la formazione del nuovo governo, annichilendo Berlusconi, mettendo con le spalle al muro il presidente della repubblica e Di Maio e i grillini. In sostanza, si è mosso con disinvoltura e coraggio, denotando doti che in molti non gli sospettavano.

Magari non diremo niente di nuovo, e anche il ministro dell’interno sarà protagonista di una parabola breve, ma, a questo punto, resta poco da dire. Con Salvini la Lega, il mondo populista o sovranista, che dir si vuole, ha trovato un vero leader.

Aderiamo ad Assonautica per incentivare il turismo fluviale

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Il Comune di Polesella ha deciso di aderire ad Assonautica e l’ha fatto con un’apposita delibera di giunta in base al quale l’amministrazione risulterà tra i soci della sezione polesana presieduta da Alba Rosito. L’obiettivo è quello di cogliere nuove opportunità di sviluppo legate al turismo fluviale e al turismo sostenibile, sfruttando le caratteristiche di nodo intermodale che il paese conserva. A spiegare il senso dell’adesione, che ha trovato concorde tutta la giunta comunale, è il sindaco Leonardo Raito: “è stata una scelta convinta che ci permette di mettere a frutto l’impegno che il nostro comune ha profuso per sostenere le caratteristiche peculiari del nostro territorio. La riapertura dell’attracco fluviale, con la nuova gestione, sta dando un forte impulso al turismo e alla visitazione. Si sta riscoprendo il valore del Po come elemento naturalistico e di visitazione. Ogni settimana due o tre navi da crociera fluviale attraccano in paese e consumano in paese. Con la Ven.To. tuor abbiamo visto direttamente anche il potenziale del turismo slow: gente proveniente da tutta Italia ha avuto modo di apprezzare il paese e i suoi servizi, riconoscendo il valore dei percorsi ciclabili. L’adesione ad Assonautica è un tassello in più per noi e per gli operatori privati del territorio”. Il grande lavoro svolto dal Comune di Polesella in ambito turistico ha riguardato e riguarderà diversi filoni: “sulla Ven.To. stiamo facendo la nostra parte convintamente. Per le ciclabili abbiamo avuto nuovi finanziamenti per la rete della Sinistra Po. Stiamo cogliendo le opportunità del turismo religioso che vedrà passare dei cammini per il nostro paese. Incentiviamo l’intermodalità, che ci permetterà di sfruttare la presenza della stazione dei treni, l’attracco fluviale e i percorsi ciclabili. Lavoriamo per costruire una rete e un’offerta turistica adeguata. Io ritengo, realisticamente, che il nostro paese possa, in qualche anno, puntare ad avere almeno 100.000 presenze turistiche l’anno. Occorre lavorarci, ma se alo sforzo conseguiranno ricadute economiche importanti. Siamo al lavoro in questa direzione, perché ci crediamo davvero”.

Minniti, un pragmatico senza fronzoli: un leader da cui il Pd può ripartire

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Ho seguito questa mattina l’intervista Tv dell’ex ministro degli interni Marco Minniti. In un passaggio su un argomento delicato come quello dei migranti, Minniti ha affrontato l’argomento senza pregiudizi, dichiarando che “l’immigrazione è un tema cruciale per tutte le democrazie e non solo per l’Italia. Il Pd ha perso le elezioni perché non ha saputo rispondere a due sentimenti profondi, la rabbia e la paura”.

Trovo questo passaggio, oltre che efficace, molto pragmatico. Non riconoscere che Minniti ha ragione è come non vedere un prete in mezzo alla neve: sarebbe bastato fare il porta a porta in campagna elettorale per rendersi conto come il tema dell’immigrazione fosse il tema più sentito tra la gente comune, di qualsiasi colore. E che il sentimento diffuso, rispetto a questo fenomeno sociale sempre più pregnante, fosse di paura e di rabbia, di insoddisfazione rispetto a una gestione tutt’altro che esemplare, di rabbia nei confronti dell’Europa che pare aver lasciato sola l’Italia di fronte alle sue responsabilità e ai suoi problemi, di paura per tutto quello che l’immigrazione si porta dietro, le difficoltà di incontro di culture, un’opinione pubblica pompata da giornali che sottolineano ormai in modo sempre più amplificato, i problemi, i reati, tutto quello che di negativo si può legare anche a sparuti e isolati casi di migranti che delinquono.

Minniti è stato un buon ministro degli interni, lo riconoscono tutti. Intanto è un uomo che conosce gli apparati di sicurezza dello stato come pochi. Poi è un pragmatico, in grado di decidere, assumersi responsabilità, anche su problemi delicati. Si tratta di un uomo che risponde all’esigenza di conoscenza e di efficacia, due caratteristiche che oggi sembrano mancare a molti politici. Per noi di sinistra, poi, Minniti è un uomo che ha saputo sdoganare argomenti di cui, di fatto, a sinistra si fa fatica a parlare, che vengono trattati con ideologia o con una patina di perbenismo che i cittadini non digeriscono più.

Anche sul tema di questa sorta di snobismo, Minniti ha voluto far sentire la sua voce: «La sinistra riformista ha fatto un sacco di cose al governo e ha ottenuto dei risultati ma ha trattato con supponenza la rabbia e la paura dei ceti più deboli. Colpa della solita superiorità morale: siamo talmente convinti di essere nel giusto da allontanare con il nostro atteggiamento chi non ci segue in tutto quel che diciamo. Non riusciamo a dare dignità a chi non la pensa come noi. Se uno è preoccupato perché la sua condizione economica è peggiorata e noi gli spieghiamo che, dopo anni di crescita negativa, il Pil è salito non facciamo che erigere un muro di incomunicabilità e confermargli la sensazione che ha di essere fuori».

Che sia necessaria una profonda autocritica verso una politica che non ha saputo intercettare i cittadini, è chiaro. Che Minniti, interprete di una sinistra moderna, possa essere uno dei protagonisti del possibile rilancio del Pd, anche.

Enrico Berlinguer, un leader moderno?

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Enrico Berlinguer fu o non fu un leader moderno? E il suo messaggio è un messaggio attuale per una politica che ha subito profonde trasformazioni rispetto agli anni 80? Qualche riflessione senza pregiudizi su uno dei leader più amati del comunismo italiano. 

 

L’11 giugno 1984 moriva a Padova, dopo un’emorragia cerebrale seguita a un drammatico comizio per la campagna elettorale per le europee, Enrico Berlinguer, il segretario del Partito Comunista Italiano, amatissimo dalla sua base, l’uomo che negli anni settanta, a fronte di una cristallizzazione della scena politica italiana, influenzata dalla conventio ad excludendum, era riuscito con le sue proposte a restituire centralità al Pci fino a far sognare l’approdo al governo sulla scia dello straordinario risultato elettorale del 1976, quando i comunisti conquistarono il 34,37% dei consensi. Sono passati trentaquattro anni e Berlinguer viene ancora oggi citato, richiamato come riferimento.

Ma quali furono le sue proposte più significative? Sicuramente l’elaborazione più alta fu quella che si concretizzò nel compromesso storico e nell’eurocomunismo. La prima, fu teorizzata a seguito del colpo di stato cileno. Berlinguer riteneva che la democrazia e le istituzioni repubblicane corressero lo stesso rischio che avevano corso quelle cilene, e risultava pertanto fondamentare un accordo di collaborazione tra le tre grandi forze popolari italiane (cattolici, socialisti e comunisti), per avviare una stagione di rinnovamento e salvaguardia delle stesse basi democratiche del paese. Il compromesso storico avvicinò i comunisti a nuove responsabilità, e fece ritenere che il Pci fosse l’unica forza in grado di interpretare il desiderio di cambiamento e di riforma di cui il paese, sulla scia dei sommovimenti seguiti al 1968 che avevano stravolto il rapporto tra partiti e cittadini e nel pieno della stagione del terrorismo, aveva bisogno. Ci furono diversi tentativi di avvicinamento, ma la Dc respinse sempre, fedele a un atlantismo che aveva radici profonde (o sotto scacco a causa del rapporto o della volontà degli Stati Uniti?) la partecipazione dei comunisti all’esecutivo. Collaborazioni esterne, patti di consultazione e altre forme di dialogo, finirono per logorare in profondità anche la base stessa comunista, che perse col tempo la fiducia nel concretizzarsi di una speranza e Berlinguer fu costretto ad abbandonare la parola d’ordine del compromesso, per inseguire una poco chiara alternativa che si doveva basare su un rinnovato accordo con i socialisti, passati ormai, con Craxi, su posizioni sempre più anticomuniste. L’eurocomunismo fu invece dettato dalla ricerca di una via autonoma per i comunisti occidentali, sempre più lontani, nel modo di pensare e di vivere la democrazia, dai paesi del socialismo reale. Poteva trattarsi di una prospettiva interessante la cui riuscita, tuttavia, dipendeva dalla capacità dei partiti comunisti europei, di riformarsi, per cercare approdi più avanzati, ricercando collaborazioni con le formazioni non marxiste. Su questo, tuttavia, Berlinguer non riuscì a spingere a pieno l’acceleratore, nonostante le prese di posizioni critiche sull’Unione Sovietica e i paesi dell’Est, dettate dalla consapevolezza che le società occidentali creavano precondizioni diverse e più favorevoli allo sviluppo di vie nazionali al socialismo. Berlinguer fu, fino alla fine, comunista e non riconoscerlo significherebbe fare un torto alla sua idealità. E un bilancio complessivo della sua figura non lo si può fare in modo autonomo rispetto alla storia del suo partito.

Qualcuno ha chiamato Berlinguer un leader solo e triste. Triste forse perché rideva poco, conscio com’era del grande senso di responsabilità che gravava sulle sue spalle, in momenti difficili per il paese, in cui le sfide nazionali e internazionali necessitavano di importanti prese di coscienza, oltre che di capacità di elaborazioni teoriche ma destinate a fondersi col necessario pragmatismo. Eppure, alcuni suoi messaggi vanno considerati di valenza universale, come il richiamo profondo a una questione morale che mai, come in un paese travolto dalla corruzione e che di lì a qualche anno avrebbe visto lo stravolgimento legato a tangentopoli, avrebbe perso la sua attualità.

Le contraddizioni del Berlinguer leader vanno tutte inserite nel contesto delle contraddizioni di un partito che fu anche un luogo di elaborazione e di culto civile, un partito in cui, dietro la maschera di solidità certificata dalla pratica del centralismo democratico, covavano dibattiti profondi sul senso e sull’attualità dell’essere comunisti in Italia. Negli ultimi anni della sua vita, ad esempio, stando anche alle più recenti testimonianze pubblicate (come ad esempio i diari di Luciano Barca) emerge sempre più la differenziazione, in seno al gruppo dirigente comunista, della componente migliorista, più attenta all’idea di una collaborazione e di un dialogo con i socialisti di Craxi, e di passi avanti verso un approdo riformista, che si sarebbe concretizzato soltanto alla morte del leader sardo. Gli mancarono coraggio, avvedutezza, capacità di anticipare i tempi? Non lo sapremo mai.

Fu Berlinguer un leader moderno? No, non mi pare che l’affermazione sia azzeccata. Berlinguer seppe interpretare alcuni limiti della modernità che attraversava il paese, ma lo fece sempre con una ritualità che si muoveva negli argini di un partito di tradizioni solide. Nel mondo impregnato di ideologia, non so se sia stato un pregio o un limite. Resta comunque la certezza che agì sempre perché credeva nel ruolo della politica e dei partiti. Già questo, in un paese che ha perso ogni interesse per il dibattito e per le regole della democrazia, pare un pregio da rimpiangere.