Si può ancora avere fiducia nella nostra democrazia?

Politica

Si può ancora avere fiducia nella nostra democrazia? La domanda, di questi tempi, è tutt’altro che banale o secondaria, se esaminiamo i dati calanti della partecipazione al voto e i sempre maggiori segnali di disaffezione e protesta che si percepiscono nelle piazze fisiche o virtuali. Allora, per cercare di rispondere alla domanda iniziale pare opportuno partire da alcune considerazioni che riguardano sia il concetto di democrazia nel nostro paese che le aspettative del popolo nei confronti del sistema, il tutto tenendo sullo sfondo le evoluzioni storiche che hanno caratterizzato la politica repubblicana.

Intanto siamo o no una democrazia in crisi? Leggendo i dati non si può che dire di si. Siamo di fronte a una democrazia sempre meno partecipata nelle sue forme: sempre meno iscritti ai partiti, sempre meno elettori al voto anche nelle occasioni tradizionalmente più vicine ai cittadini (come le amministrative). In questo pesano sicuramente le difficoltà dei partiti intesi come organismi e comunità. I partiti sono stati i principali organizzatori della democrazia italiana. Hanno attraversato e interpretato la fase di massificazione della politica prodottasi tra le due guerre mondiali e manifestatasi sempre più come un bisogno o una irrinunciabile necessità dopo la liberazione. I partiti hanno incarnato lo spirito pluralista emerso tra le fila della resistenza e sono diventati pieni occupatori di scene e spazi pubblici, organizzatori di cultura quantunque veri e propri strumenti di religioni civili. All’interno dei partiti, nel culto vero e proprio di una militanza fedele, si sono forgiati milioni di donne e uomini educati alla democrazia, alla partecipazione, alla discussione sui temi, sviscerati e approfonditi, anche se poco spazio veniva lasciato al dissenso. Essere iscritti a un partito significava, in primis, credere. Credere in una linea politica, in un gruppo dirigente, in un leader. Stimare i politici come portatori di valori sani, persone che avevano al centro delle proprie azioni il bene pubblico o una prospettiva progressista o migliorista per le classi sociali di riferimento, in un sistema che inizialmente era bloccato da una scarsa mobilità sociale, l’ottenimento della quale lanciò diffusi e pericolosi scricchiolii nel tradizionale sistema partitico.

Oggi, i partiti intesi come i tradizionali organismi di cui sopra, non esistono più. Sono stati cancellati da tangentopoli prima e dall’emergere di un sempre più marcato leaderismo (o di personalismi distruttivi) che ha ridotto processi e spazi decisionali. Tutto qui? Sicuramente ho esemplificato il problema in modo troppo riduttivo. Spesso dimentichiamo lo scossone che più di ogni altro ha stravolto il sistema partitico italiano. La caduta del muro di Berlino ha fatto venir meno la solida base su cui si era retta la nostra repubblica, ovvero il sistema che Giorgio Galli aveva efficacemente ridotto alla formula del “bipartitismo imperfetto”. Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano si fronteggiavano nella reciproca certezza dei ruoli che la storia aveva loro assegnato: i democristiani erano l’argine, per l’occidente tutto, contro l’avanzata del comunismo e dei valori riconducibili a un mondo “altro”. Ma anche questo sistema bloccato non era stato foriero di buone conseguenze per la democrazia italiana. La Dc era involuta in un partito da gestione di potere, spaccato in correnti e correntine con leader e microleader che preservavano spazi attraverso azioni di clientelismo e fidelizzazione costose, da finanziare a spese dello stato. Mentre il Pci non riusciva a modernizzarsi, il Psi cresceva in alternativa ai comunisti, i piccoli partiti laici vivacchiavano legati a non sempre efficaci formule governative (quadripartito, pentapartito) sfamandosi alla tavola imbandita, si sviluppavano movimenti di protesta regionalisti (le Leghe), che dall’iniziale marchio di purificazione cadevano poi nella tentacolare gestione di potere in regioni e nei governi. Questo dimostra con chiarezza che la crisi dei partiti è la prima causa della crisi della nostra democrazia. Ma il ragionamento non può fermarsi qui.

La calda estate ha dimostrato, qualora ce ne fosse ancora più bisogno, quanto flebile sia la speranza nelle alternative prodotte in questi anni da una scena pubblica sempre più mediatizzata o socializzata. Le sparate di alcune parlamentari grilline, tipo il Pil che cresce perché c’è caldo (chissà se il colpo di sole che ha colpito la senatrice Lezzi ha aumentato le entrate della sanità?), la catastrofe di Roma, governata da una sindaca con una grande investitura popolare che pare non averne azzeccata mezza, dimostrano un altro problema enorme: una classe dirigente non si improvvisa, ma va formata, costruita.

Non rivolgendosi a un fantomatico e sbalorditivo ricorso ai tecnici, perché un buon governo è frutto di una buona componente tecnica e di una politica, ma aiutando promettenti dirigenti politici a crescere e professionalizzandoli. Nel primo caso, un ritorno a un onesto e serio cursus honorum, non potrebbe che essere prezioso. Nel secondo, senza cadere nella facile retorica o nelle accuse di delinquentismo, ritengo che sia fondamentale ritornate alla professionalità nella politica. Qui c’è bisogno di gente preparata, competente, che studi e che lavori. Professionisti della politica non significa che devono vivere alle spalle della gente, ma che devono produrre provvedimenti per la gente. Riducendo i privilegi, ma non svilendo la professionalità, ci sarebbe forse modo di rieducare il popolo alla necessità della politica. Pensare che una massaia, perché onesta, possa guidare la complessa macchina di un governo, dello stato, di un’amministrazione, pare follia. Di fronte alle difficili condizioni di questi anni, improvvisare sarebbe scellerato. Meglio riporre la fiducia in chi conosce e sa. Possibile che in tanto pochi se ne siano accorti?

Mi riservo di allargare il ragionamento in altri scritti. Ma la chiave di lettura mi pare chiara: senza partiti che funzionano e senza politici di qualità la nostra democrazia non si risolleverà. Tantomeno con un blog.

 

Leonardo Raito

Pronti a far decollare la ciclovia Ven.To.: un’opportunità di sviluppo immediato

VenTo

Il progetto della ciclovia Venezia Torino sta procedendo con la prospettiva di creare una delle più importanti strade ciclabili d’Europa, con oltre 652 Km di percorso protetto. La ciclovia Ven.to. al pari di altre tre in Italia, si trova già allo step della progettazione e quindi non si è lontani dalla piena realizzazione di quello che, solo un paio d’anni fa, poteva sembrare un sogno. Per la realizzazione del sistema nazionale di ciclovie turistiche sono stati stanziati per il triennio 2016/2018 89 milioni di euro per le quattro ciclovie prioritarie previste al comma 640 della Legge di Stabilità 2016 mentre, le ulteriori risorse previste dalla legge di bilancio 2017 pari a 283 milioni di euro andranno a finanziare la realizzazione di quelle ciclovie che verranno individuate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel periodo 2017/2024. Le risorse Mit messe a disposizione sono quindi 372 milioni, con cofinanziamento possibili risorse per 750 milioni. E’ prevista anche la possibile partecipazione di investimenti privati, oltre che pubblici. Si tratta di 5.000 km già finanziati entro il 2024 e di 20.000 km entro il 2030.

Il sindaco di Polesella Leonardo Raito, che, con la sua giunta, ha creduto da subito al progetto, intende, nelle prossime settimane, dare una sferzata al territorio, per costruire le sinergie che possano far decollare il progetto: “la ciclovia Venezia Torino rappresenta una grande occasione di rilancio per il territorio polesano, una sfida per un nuovo indirizzo economico che veda il turismo e la mobilità lenta al centro della programmazione. Se occorrerà chiudere le strade arginali, credo che la scommessa debba essere giocata e colta. Se un disagio oggi può portare enormi vantaggi domani, è dovere degli amministratori fare delle scelte coraggiose, anche se possono sollevare qualche mugugno”. Se si passa ad analizzare i numeri, infatti, si vede come la scommessa abbia basi solide: “nel 2012 in Europa il cicloturismo ha contato oltre 2 milioni di viaggi e 20 milioni di pernottamenti per un totale di 44 miliardi di euro. Il valore potenziale del cicloturismo in Italia è stimabile in circa 3,2 miliardi annui. Una cifra considerevole per un comparto che, tra l’altro, è in forte crescita”. Ma come riuscire a cogliere questi vantaggi? Raito, a tal proposito, ha qualche idea: “sfruttando i nodi dell’intermodalità e l’integrazione dell’offerta. I cicloturisti amano consumare prodotti tipici, visitare luoghi, conoscere. Enogastronomia, ospitalità, turismo naturalistico e culturale possono essere chiavi promozionali interessanti. Occorre mettere in fila tutti questi elementi: per questo proporrò una nuova cabina di regia polesana per riuscire nell’intento di cogliere l’opportunità di rilancio, con la costituzione di un protocollo d’intenti e di azioni da mettere in campo. Potrebbe essere la più importante occasione degli anni a venire”.

 

Tra Ville e giardini: Polesella ha partecipato al grande successo dell’edizione 2017

marina rei 2Anche quest’anno, con lo straordinario concerto di Marina Rei, Polesella ha dato il suo contributo alla splendida riuscita della rassegna provinciale “Tra Ville e Giardini”. Riporto sotto il comunicato degli organizzatori che tracciano un bilancio dell’edizione 2017.

 

SI CHIUDE L’EDIZIONE 2017

XVIII TRA VILLE E GIARDINI, UN EVENTO IDENTITARIO CONFERMATO NEL TEMPO

Spettacoli di spessore, impegno collettivo, passione per il territorio ed il pubblico apprezza

“Le cose belle, fatte con amore, riescono sempre. Amore per il territorio e amore per l’arte. Qualità delle proposte. E’ questo che permette ad una manifestazione di continuare nel tempo”. Parole di sintesi del presidente della Provincia, Marco Trombini sull’edizione 18ma di “Tra ville e giardini”, itinerario di danza e musica nelle ville e nelle corti del Polesine, che si è appena conclusa.

L’edizione ha confermato e superato il successo dell’anno scorso, con circa 7000 spettatori paganti, una media di 300 spettatori a serata con punte sopra i 600. Riscontro positivo sui concerti con biglietto maggiorato, che sono stati più seguiti di altri, a conferma che il pubblico ha risposto bene anche alla dolente ma necessaria scelta della direzione di aumentare i prezzi per alcuni eventi.

Tra ville e giardini è stata, come sempre, promossa dalla Provincia di Rovigo ed organizzata nell’ambito dell’Accordo di programma tra Regione Veneto e Provincia di Rovigo Rete eventi, attraverso il quale arrivano 20 mila euro alla Provincia. L’organizzazione, gestione e programmazione concreta è dell’Ente Rovigo Festival, mentre la Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo contribuisce con 45 mila euro. Il finanziamento si completa col contributo dei Comuni e con le vendite dei biglietti.

Quattordici i Comuni polesani coinvolti, uno in più del 2016, per altrettante location d’interesse: Adria, Ariano nel Polesine, Badia Polesine, Canda, Castelmassa, Ceneselli, Ficarolo, Fratta Polesine, Lendinara, Occhiobello, Polesella, Porto Tolle, Rosolina (prima partecipazione), Rovigo. E mai come quest’anno occorre riconoscere che la rassegna è stata fortemente voluta dai Comuni, i quali hanno contribuito oltre che per l’organizzazione logistica ed i servizi sui rispettivi luoghi di esibizione, anche con una somma superiore all’anno scorso, pari a 1.500 euro: uno sforzo notevole, soprattutto per gli enti più piccoli, che denota la volontà politica di portare avanti un evento culturale.

Quattordici gli spettacoli programmati, più un’anteprima ad ingresso gratuito. La direzione artistica di Claudio Ronda dell’Ente Rovigo Festival, ha confermato scelte artistiche di indiscutibile spessore culturale e musicale, tutte impeccabilmente abbinate alla location più affine, in un tetris grande quanto il Polesine. Da The Manhattan transfer al Censer di Rovigo a Marina Rei in villa Selmi a Polesella; dai fiabeschi mimi Dekru al castello Schiatti di Ficarolo a Peter Erskine Dr.Um nella verde golena di Occhiobello; dalla dolcezza di Diane Schuur nel giardino romantico di Ca’ Dolfin a Lendinara all’ermetico Dente Peveri nell’orgogliosa villa Nani a Canda.

Nello spirito di un evento culturale che può fare da volano all’economia turistica del Polesine, è stata positiva la collaborazione di Tra ville e giardini con il Rovigo convention & visitors bureau, rete d’imprese per la promozione turistica tra Assindustria servizi, Confcommercio imprese Rovigo e Confesercenti Rovigo. L’ufficio ha organizzato un press tour di due giorni, accompagnando dei giornalisti di settore allo spettacolo dei Cluster che si è svolto a Badia nell’Abbazia della Vangadizza, e guidandoli alla scoperta di Badia e Fratta Polesine (col supporto della Provincia e Comuni per l’apertura straordinaria di musei e ville) e del Delta del Po, tra valli da pesca, sapori locali, la Sacca degli Scardovari e Santa Giulia.

Grandi numeri e tante collaborazioni per una manifestazione lunga ed impegnativa, che sposta davvero le masse per mezzo della cultura, dell’arte e della musica e che le porta in tanti luoghi di interesse storico-artistico. Una manifestazione che in 18 anni ha assunto un’importante connotazione sociale identitaria. “Tra ville e giardini ci aiuta a trovare il senso della comunità. – spiega il direttore artistico Claudio Ronda – Lo stare assieme in luoghi che sono patrimonio della nostra cultura, non solo polesana, ma nazionale, ci dona un’emozione, ci aiuta a riscoprire il nostro territorio e un senso di bellezza, non fine a sé stessa, ma per condividerlo con altri, che di questi tempi è molto importante. Poi la conoscenza dei luoghi ci aiuta anche a farne un uso consapevole”.

Le armi dei terroristi: la quotidianità e il convenzionale

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Foto pubblicata da L’Eco di Bergamo

Negli anni novanta, confrontandomi con un amico che sarebbe poi diventato ingegnere aeronautico, gli dissi che temevo che qualche gruppo terroristico potesse mascherare da aereo civile un cacciabombardiere per sganciare bombe su qualche città americana. L’ipotesi, che sembrava fantascientifica all’epoca, in realtà in parte fu applicata negli attentati tragici dell’11 settembre 2001, solo che i terroristi la fecero molto più facile di quanto pensavo: dirottarono gli aerei e li utilizzarono direttamente come bombe creando distruzione e scompiglio. In sostanza, usarono il quotidiano e il convenzionale per un attacco che aveva tutti i crismi e il potenziale distruttivo di una azione militare. Negli ultimi tempi, pare evidente come il terrorismo attacchi la normalità e la quotidianità con mezzi normali: un camion (ne gireranno milioni ogni giorno per le nostre strade) diventa uno strumento di morte se lanciato in una strada affollata, in una festa, a un mercato; un furgone pieno di esplosivo o carico di terroristi può seminare morte e paura in un centro città. Come prevenire questi assalti? La sfida non è facile, proprio perché inaspettata e difficilmente gestibile. Dopo l’11 settembre la risposta internazionale fu una stretta incredibile negli aeroporti. Uomini armati, metal detector, scanner che verificano valige, scarpe, abbigliamento, biglietti prenotati con carte di identità, lunghe file e controlli al check in. In questo modo si sono difesi gli aerei, e i potenziali obiettivi centrabili con gli stessi, ma non si è prevenuto il rischio di esposizione degli aeroporti, così come delle stazioni e dei luoghi affollati, obiettivi privilegiati in quanto tali, con alta concentrazione di gente, target che rende più facile e comoda la resa di un attentato. Diventa difficile però preservare tutte le città e tutti i luoghi affollati, salvo prevedere una assoluta militarizzazione degli spazi pubblici, con l’esercito nelle strade con licenza di colpire, il coprifuoco, un controllo capillare su chiunque metta piedi in uno spazio. La cosa sempre impossibile e non accettabile per una società che ha fatto della libertà di muoversi, spostarsi, di vivere non rintanati, alcune delle proprie prerogative. Eppure ci sono delle costanti che mi pare di ravvedere in tutti gli attentati degli ultimi anni sul suolo europeo. Quasi tutti gli attentatori sono schedati o attenzionati, spesso hanno passato del tempo nelle carceri, e poi ne sono usciti. A questo punto, la questione da barattare è questa: siamo disposti a rinunciare a una fetta delle nostre libertà per una maggiore sicurezza? Se si, non sarà possibile trascurare la necessità di una legislazione speciale transnazionale, rendere più duro il carcere e più dure le pene per i terroristi o i fiancheggiatori, affrontare con maggiore pragmatismo il tema delle migrazioni, anche interne. Non può che essere questa la logica di difesa in un mondo sempre più globale e interdipendente.

Leonardo Raito

Sul C.u.r. occorre realismo

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Sul tema dell’università a Rovigo si riapre, ciclicamente, un dibattito che riguarda in primis la collocazione delle sue strutture: centro o periferia, con i sostenitori della prima ipotesi che ritengono la presenza di studenti in centro la mirabolante ricetta per il rilancio di un’economia depressa e forse pensano agli studenti fuori sede come a dei polli da spennare con affitti all’equo rialzo e ristoranti e bar che si riempiono come d’incanto, prendendo ad esempio le vicine realtà di Padova e Bologna e, in subordine, Ferrara. Niente di più irrealistico: pare di assistere ai sogni irrealizzabili di chi è caduto dalla luna dopo trent’anni nello spazio.

In primis, stiamo parlando di storie completamente diverse. L’Università di Bologna è la più antica del mondo occidentale e ha quasi 85.000 studenti, quella di Padova tra le più antiche e con quasi 60.000. Due realtà distanti anni luce da Rovigo, quasi città nella città che hanno obbligato nel tempo a scelte di programmazione urbanistica seria proprio per il ruolo cruciale che l’istruzione accademica offriva allo sviluppo dei due agglomerati urbani. La forza delle università, al pari dell’attrattiva, sta anche nella propria storia, nella tradizione, che spesso si traduce in qualità dei corsi, dei docenti, della ricerca, delle strutture. Ma non fermiamoci a questo. Quale reale potenzialità strutturale ha, in chiave di bacino universitario, Rovigo? Cerchiamo di essere realistici. Ferrara dista venti minuti di treno, Padova mezz’ora, Bologna un’ora e lo stesso Venezia. E le strutture? Oggi le due sedi principali rodigine sono il cubo in zona Cen.ser. (a proposito…lì di spazio ce n’è a volontà) e una ex scuola media in Via Marconi. Dove sarebbero gli spazi pronti in centro? L’ex caserma “Silvestri”? L’ex Questura (la aspetta la Finanza)? L’ex Banca d’Italia? Ma qui stiamo parlando di uffici, non di aule, spazi studio, biblioteche. Chi potrebbe sostenere i costi di tali interventi? Non lo stato (il Cur non è un ateneo autonomo). Non le realtà locali o i privati (troppo oneroso). Quindi? Facciamo un po’ il punto.

Il Consorzio Universitario Rovigo è una bella realtà che si regge sul fatto di essere sede di corsi collocati da Padova e Ferrara. Ha poco più di 2.000 studenti, un numero che nel tempo si è consolidato; si regge soprattutto sullo sforzo della Fondazione Cariparo. Già, se mancasse quest’ultimo, sarebbe bene accantonare i sogni di gloria. Ho avuto la fortuna di conoscere meglio il Cur negli anni in cui ho svolto l’incarico di assessore provinciale e di averci insegnato per tre anni, apprezzandone la struttura, confrontandomi con gli studenti e con i colleghi. Gli studenti scelgono Rovigo per la distanza e il contenimento dei costi: gli studenti sono in larghissima parte polesani o della bassa padovana. I fuori sede saranno una cinquantina. Non il cinquanta per cento, una cinquantina proprio: e sarebbero questi i numeri per il rilancio dell’economia del centro? Trenta caffè? Dieci appartamenti affittati? Mio dio, quanto poveri saremmo se pensassimo questo.

Quando mi sono chiesto che cosa fare per poter incrementare il numero degli studenti del nostro Consorzio, mi sono detto che c’era sì la possibilità di portare altri corsi, ma occorrevano gli spazi e che forse occorreva tirar fuori l’idea da affiancare a quello che funziona già. E allora mi sono detto che in Veneto, se ci può essere uno spazio autonomo, questo potrebbe essere quello riservato a un’università per stranieri, sulla scia di quelle che esistono a Siena e Perugia, o di quella istituita recentemente a Reggio Calabria. Il Veneto, con quasi mezzo milione di stranieri stabilmente residenti, avrebbe un bacino d’utenza di straordinario interesse e di prospettiva.

Nella condizione attuale, è realistico e serio accontentarsi di quanto il Cur riesce a fare in virtù della propria dipendenza (in accezione positiva) o programmare potenziamenti in linea con l’effettiva sostenibilità. Troppe variabili rischiano di minarne la solidità e il futuro fino a metterne in forse la stessa esistenza? Non credo sia ciò che vogliamo.

Prossimi importanti investimenti sulle reti fognarie

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L’Amministrazione Comunale di Polesella non ha tralasciato, in questi anni, il settore delle fognature e il sindaco Leonardo Raito, tra l’altro presidente del Consiglio di Bacino Polesine, preannuncia una serie di investimenti importanti sul territorio. “Il piano di investimenti approvato dall’Ato e finanziato da Polesine Acque prevede un intervento da 250.000 euro per il rifacimento di una vasta tratta fognaria in centro. Si tratta del più importante investimento sulla rete degli ultimi vent’anni, che dovrebbe risolvere il problema di intasamenti nella zona di Via Verdi, Via Dante, Via Galilei e Piazza Matteotti, sistemando una situazione che ciclicamente ha comportato problemi”. Il sindaco Raito ha voluto poi incontrare Polesine Acque per fare il punto in merito ad altre situazioni: “siamo in fase di redazione del piano comunale delle acque, con i tecnici individuato dal Consiglio di Bacino. Insieme a loro abbiamo affrontato, tra le altre, due situazioni problematiche che si verificano in Via Condotti quando ci sono piogge intense e il problema delle reti in Via Don Minzoni, che hanno subito molteplici interventi di ripristino, e di Via Trieste. Queste saranno oggetto di verifiche, con l’auspicio di poter vedere altri investimenti”. Da ultima, la situazione del depuratore: “si sta pensando a una nuova progettazione per la sistemazione del depuratore comunale e dello scolo Magarino, che in passato ha avuto delle problematiche ma su cui, già nel 2016 abbiamo effettuato alcuni interventi di canalizzazione. Siamo comunque in prima linea anche su questo settore delicato”. Infine, una dovuta attenzione alle periferie: “ho intenzione di progettare le fognature per la frazione di Bresparola. Proveremo a fare passi avanti anche lì”.

 

Perché Venetoacque è una buona notizia

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Dopo un periodo di stallo, di approfondimenti e di valutazioni che agli osservatori facevano pensare che il percorso di fusione tra Cvs e Polesine Acque non sarebbe andato a buon fine, dopo che i sindaci padovani si erano espressi a favore del percorso, oggi anche l’assemblea dei sindaci polesani ha dato il proprio ok alla nascita di Venetoacque SpA, la nuova società di gestione del sistema idrico integrato che sarà al servizio di oltre mezzo milione di veneti delle province meridionali.

Lo sviluppo di questa prospettiva, su cui molti organi di stampa sembravano nutrire scarsa fiducia, è stato permesso in quanto il Comune di Rovigo, in ottemperanza al mandato del consiglio comunale, ha partecipato all’assemblea comunale votando contro la fusione ma consentendo ai soci di raggiungere il quorum che consentiva la conclusione di un percorso che aveva visto uno studio di fattibilità, oltre 30 comuni della provincia votare favorevolmente nei propri consigli comunali, una miriade di incontri, approfondimenti, confronti che ci hanno fatto propendere per il si.

Occorre dire, a differenza di quanto hanno fatto altri comuni i cui consigli avevano votato no, ma i cui sindaci non avevano partecipato alle assemblee dei soci (in realtà il mandato dei consigli investiva i sindaci dell’incarico di partecipare alle assemblee e votare no, e non di non partecipare), il comune di Rovigo ha mantenuto fede al mando del consiglio comunale. E la democrazia, che si esplica attraverso la logica delle maggioranze, e non attraverso la logica delle assenze, per questa volta ha avuto ragione.

Si inizia così un percorso nuovo, che, a parere dei sindaci che hanno sostenuto continuamente la fusione, potrà avere indubbi vantaggi per i cittadini. Intanto, a gestire l’acqua pubblica sarà una società pubblica più solida e forte di Polesine Acque. Una società che avrà una maggiore bancabilità e consentirà maggiori possibilità di investimenti sul territorio. Le due strutture che andranno a fondersi, inoltre, potranno contare sul maggior apporto delle reciproche professionalità, non si perdono posti di lavoro, si costruisce quella logica di governo di area vasta che non si può avversare nel 2017, quando il mondo guarda alle integrazioni globali e non ci si può richiudere su sé stessi.

A chi parla di aumenti delle tariffe, occorre ribadire con chiarezza che le tariffe non le fissa il soggetto gestore, ma le fissano i sindaci attraverso il proprio Consiglio di bacino. C’è quindi la possibilità di incidere e, in sede politica, di contenere i rischi di fughe in avanti o di penalizzazioni.

Polesine Acque, e l’ambizioso piano degli interventi approvato dalla sua assemblea, aveva una sola possibilità di essere sostenuto, a partire dal 2018: la possibilità di accedere a finanziamenti, in quanto viene a cessare l’effetto benefico degli hydrobond, che hanno permesso di programmare investimenti nell’ultimo triennio.

La forza della nuova società, infine, permetterà la salvaguardia del settore idrico come bene pubblico, preservando il territorio del basso veneto dai già ventilati appetiti dei privati. A mio avviso, quindi, la politica polesana oggi ha fatto un grande servizio al territorio e ai cittadini. E con il concorso di tutti si è giunti a un risultato che non era scontato, ma i cui effetti benefici potremo misurare tutti di qui in avanti.