Si può ancora avere fiducia nella nostra democrazia? La domanda, di questi tempi, è tutt’altro che banale o secondaria, se esaminiamo i dati calanti della partecipazione al voto e i sempre maggiori segnali di disaffezione e protesta che si percepiscono nelle piazze fisiche o virtuali. Allora, per cercare di rispondere alla domanda iniziale pare opportuno partire da alcune considerazioni che riguardano sia il concetto di democrazia nel nostro paese che le aspettative del popolo nei confronti del sistema, il tutto tenendo sullo sfondo le evoluzioni storiche che hanno caratterizzato la politica repubblicana.
Intanto siamo o no una democrazia in crisi? Leggendo i dati non si può che dire di si. Siamo di fronte a una democrazia sempre meno partecipata nelle sue forme: sempre meno iscritti ai partiti, sempre meno elettori al voto anche nelle occasioni tradizionalmente più vicine ai cittadini (come le amministrative). In questo pesano sicuramente le difficoltà dei partiti intesi come organismi e comunità. I partiti sono stati i principali organizzatori della democrazia italiana. Hanno attraversato e interpretato la fase di massificazione della politica prodottasi tra le due guerre mondiali e manifestatasi sempre più come un bisogno o una irrinunciabile necessità dopo la liberazione. I partiti hanno incarnato lo spirito pluralista emerso tra le fila della resistenza e sono diventati pieni occupatori di scene e spazi pubblici, organizzatori di cultura quantunque veri e propri strumenti di religioni civili. All’interno dei partiti, nel culto vero e proprio di una militanza fedele, si sono forgiati milioni di donne e uomini educati alla democrazia, alla partecipazione, alla discussione sui temi, sviscerati e approfonditi, anche se poco spazio veniva lasciato al dissenso. Essere iscritti a un partito significava, in primis, credere. Credere in una linea politica, in un gruppo dirigente, in un leader. Stimare i politici come portatori di valori sani, persone che avevano al centro delle proprie azioni il bene pubblico o una prospettiva progressista o migliorista per le classi sociali di riferimento, in un sistema che inizialmente era bloccato da una scarsa mobilità sociale, l’ottenimento della quale lanciò diffusi e pericolosi scricchiolii nel tradizionale sistema partitico.
Oggi, i partiti intesi come i tradizionali organismi di cui sopra, non esistono più. Sono stati cancellati da tangentopoli prima e dall’emergere di un sempre più marcato leaderismo (o di personalismi distruttivi) che ha ridotto processi e spazi decisionali. Tutto qui? Sicuramente ho esemplificato il problema in modo troppo riduttivo. Spesso dimentichiamo lo scossone che più di ogni altro ha stravolto il sistema partitico italiano. La caduta del muro di Berlino ha fatto venir meno la solida base su cui si era retta la nostra repubblica, ovvero il sistema che Giorgio Galli aveva efficacemente ridotto alla formula del “bipartitismo imperfetto”. Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano si fronteggiavano nella reciproca certezza dei ruoli che la storia aveva loro assegnato: i democristiani erano l’argine, per l’occidente tutto, contro l’avanzata del comunismo e dei valori riconducibili a un mondo “altro”. Ma anche questo sistema bloccato non era stato foriero di buone conseguenze per la democrazia italiana. La Dc era involuta in un partito da gestione di potere, spaccato in correnti e correntine con leader e microleader che preservavano spazi attraverso azioni di clientelismo e fidelizzazione costose, da finanziare a spese dello stato. Mentre il Pci non riusciva a modernizzarsi, il Psi cresceva in alternativa ai comunisti, i piccoli partiti laici vivacchiavano legati a non sempre efficaci formule governative (quadripartito, pentapartito) sfamandosi alla tavola imbandita, si sviluppavano movimenti di protesta regionalisti (le Leghe), che dall’iniziale marchio di purificazione cadevano poi nella tentacolare gestione di potere in regioni e nei governi. Questo dimostra con chiarezza che la crisi dei partiti è la prima causa della crisi della nostra democrazia. Ma il ragionamento non può fermarsi qui.
La calda estate ha dimostrato, qualora ce ne fosse ancora più bisogno, quanto flebile sia la speranza nelle alternative prodotte in questi anni da una scena pubblica sempre più mediatizzata o socializzata. Le sparate di alcune parlamentari grilline, tipo il Pil che cresce perché c’è caldo (chissà se il colpo di sole che ha colpito la senatrice Lezzi ha aumentato le entrate della sanità?), la catastrofe di Roma, governata da una sindaca con una grande investitura popolare che pare non averne azzeccata mezza, dimostrano un altro problema enorme: una classe dirigente non si improvvisa, ma va formata, costruita.
Non rivolgendosi a un fantomatico e sbalorditivo ricorso ai tecnici, perché un buon governo è frutto di una buona componente tecnica e di una politica, ma aiutando promettenti dirigenti politici a crescere e professionalizzandoli. Nel primo caso, un ritorno a un onesto e serio cursus honorum, non potrebbe che essere prezioso. Nel secondo, senza cadere nella facile retorica o nelle accuse di delinquentismo, ritengo che sia fondamentale ritornate alla professionalità nella politica. Qui c’è bisogno di gente preparata, competente, che studi e che lavori. Professionisti della politica non significa che devono vivere alle spalle della gente, ma che devono produrre provvedimenti per la gente. Riducendo i privilegi, ma non svilendo la professionalità, ci sarebbe forse modo di rieducare il popolo alla necessità della politica. Pensare che una massaia, perché onesta, possa guidare la complessa macchina di un governo, dello stato, di un’amministrazione, pare follia. Di fronte alle difficili condizioni di questi anni, improvvisare sarebbe scellerato. Meglio riporre la fiducia in chi conosce e sa. Possibile che in tanto pochi se ne siano accorti?
Mi riservo di allargare il ragionamento in altri scritti. Ma la chiave di lettura mi pare chiara: senza partiti che funzionano e senza politici di qualità la nostra democrazia non si risolleverà. Tantomeno con un blog.
Leonardo Raito