Vialli, un meraviglioso condottiero.

Quando, come me, sei nato sul finire degli anni settanta e sei juventino, sei riuscito a goderti appena la grande stagione di Platini. La grande Juventus di Trapattoni, dominatrice in Italia, in Europa e nel mondo, ha fatto la storia e tu te ne sei accorto di striscio. Si, ti sei visto gol e azioni al mitico Novantesimo minuto, ti ricordi le smacchinate con le bandiere al vento per festeggiare, ma non hai avuto compiutezza piena di quanto forte e importante fosse la tua squadra. Non ricordo la finale di Coppa delle Coppe, ho ricordi sfumati della tragedia dell’Heysel, non ho visto la notturna di Tokio, con la vittoria dell’Intercontinentale. Ho quindi cominciato a “vivere” di più la Juventus sul finire degli anni ottanta, quando in Italia dominano il Napoli di Maradona, il Milan degli olandesi e l’Inter teutonica o la Sampdoria di Boskov. La Juve è quella dei russi, che, perso il fuoriclasse Platini, non riesce a rimpiazzarlo con un vero leader. È una Juve operaia, dignitosa, che vede svernare Altobelli, che fa giocare Galia, Bruno, Bonetti, Napoli, Fortunato, Buso, Rui Barros. Una Juve operaia che comunque riesce a vincere qualcosa, anche se di minore. Con Zoff in panchina la Signora porta a casa una Coppa Italia, battendo il Milan, con rete di Galia aiutato da una zolla; e una Coppa Uefa contro la Fiorentina. Sulla tragedia di Maifredi meglio sorvolare, anche se arriva un fuoriclasse assoluto come Baggio. Poi torna Trapattoni ma lo scudetto resta lontano, anche se con il Trap si preparano le basi per il ritorno alla vittoria. Tra i giocatori arrivati c’è anche Vialli, un campionissimo che alla Sampdoria fece sfracelli ma che nei primi anni a Torino sembra quasi un equivoco. Trapattoni non riesce a utilizzarlo al meglio, lo mette persino a centrocampo. I 40 miliardi spesi per comperarlo iniziano a pesare. Ma nel 1994 ecco la svolta. A guidare la squadra arriva un toscanaccio come Marcello Lippi. E Vialli, co Ravanelli e Baggio, poi Del Piero, forma un tridente impressionante per corsa, movimento, grinta, capacità realizzativa. Inizia la storia di una squadra fortissima che in tre anni vincerà scudetto, Champions League, Coppa Intercontinentale. E leader delle prime due stagioni è proprio Vialli, meraviglioso condottiero, capitano che a Roma alzò la tanto agognata coppa. Fu la sua ultima partita in bianconero. In pochi capirono la sua partenza, verso l’Inghilterra dove lo attendeva il Chelsea che riportò a vincere. Ma la storia non si fermò. Però, nei miei ricordi di bianconero, pochi scatti hanno la forza e donano l’emozione di quella coppa alzata. Quella vittoria ci rimetteva in pari con la fortuna, ci mise sullo stesso piano delle altre italiane trionfanti in Europa. Ci restituì, o forse ci fece assaporare per la prima volta, la dimensione mondiale della nostra squadra. La scomparsa di Vialli ci rende tutti più poveri. Da juventini e da innamorati del calcio, non lo dimenticheremo mai. 

Trentotto anni fa, la morte di Berlinguer

Trentotto anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer, il segretario del Pci che, nel corso di un comizio per le elezioni europee fu colpito da un ictus e in pochi giorni si spense, tra il cordoglio generale dei militanti e degli italiani. Ho esplicitato alcuni giorni fa, nel corso di una conferenza, la mia idea che i funerali di Berlinguer siano stati un funerali di popolo più che funerali di partito: tanta infatti fu la gente che accompagnò a Roma il feretro del segretario sardo, in un ultimo ideale abbraccio che valeva come un tributo di affetto e di stima per la serietà di un uomo mai sopra le righe e mai volgare, capace di misurare le parole in modo così diverso da come saremmo stati abituati nella seconda repubblica. Con Berlinguer finiva una stagione, finiva la parabola del più grande partito comunista di un paese occidentale, perché nessuno seppe raccoglierne l’eredità, nessuno eguagliarne le doti di leadership. Diventato segretario nel 1972, dopo che per tre anni, come vice di Longo, si era preparato la successione, Berlinguer seppe portare il Pci a vette inaspettate, toccando, nel 1976, il 34%, un risultato che poneva il Pci come soggetto fondamentale dei processi innovativi e democratici di questo paese. Con le proposte del compromesso storico e dell’eurocomunismo seppe riportare il Pci al centro del dibattito politico nazionale e internazionale, si erse come difensore delle istituzioni repubblicane dal rischio dei golpe che vedeva certificano da quanto era successo in Cile. L’eurocomunismo aprì, per qualche tempo, una stagione di innovazione a livello europeo, con il Pci che sembrò sul punto di rompere con Mosca per costruire una proposta perfettamente integrata con i valori democratici e pluralisti dei paesi occidentali. Austerità e questione morale furono altre due parole d’ordine che Berlinguer seppe proporre in momento difficili per il nostro paese, colpito da crisi economiche e strutturali e da una degenerazione che già colpiva il sistema partitico. Fu protagonista di una stagione, capace di aprire il partito alle forze più innovative, alle donne e ai giovani, talmente protagonista che, ancora oggi, tante persone rimpiangono quell’uomo semplice ma autorevole, serio ma capace di sforzi futuristici complessi, non sempre premiati dentro e fuori il partito. Fu sempre e comunque orgogliosamente comunista, mai tentato di approdi socialdemocratici. Certo, il Pci degli anni ottanta era cosa molto diversa da quello dell’immediato dopoguerra, ma sarebbe stato bello vedere come avrebbe interpretato la svolta del dopo Berlino. Morì troppo giovane e troppo presto per poterlo fare.    

Piero Pelù si racconta a “sorsi d’autore”

Nel corso della rassegna veneta di letteratura e enogastronomia “Sorsi d’autore” organizzata dal Fondazione Aida, ospite della giornata di apertura che ha visto come location la splendida Villa Badoer di Fratta Polesine, perla incastonata nella campestre provincia rodigina, è stato un brillante Piero Pelù, cantante e già leader dei Litfiba, che ha portato il suo romanzo Spacca l’infinito, edito da Giunti. L’artista toscano ha voluto toccare diversi dei temi contenuti nel suo romanzo di una vita in un dialogo che è stato molto apprezzato dal pubblico. Ma scopriamone i segreti. 

Come sei arrivato alla stesura del tuo romanzo?

Il libro è scaturito da un uragano dirompente di emozioni connesso alla pandemia, che ha fatto scaturire un fortissimo desiderio di fuga e di irrazionalità, una fuga che voleva portarmi lontano da una realtà di chiusura, anche psicologica, legata al blocco. Un blocco che comunque mi ha fatto rifugiare nella scrittura. Giunti ha avuto interesse per questo romanzo, che tuttavia non è il mio primo scritto, dato che avevo già a quattro mai steso un paio di opere biografiche. Qui il romanzo si snoda in un racconto in terza persona, è un po’ un romanzo collettivo che parla del vissuto della mia famiglia partendo dai primi del novecento, con l’esperienza d guerra vissuta da mio nonno. È un romanzo che tratta un ampio spazio temporale che va dal passato quasi remoto al futuro, in un filo che unisce l’aver combattuto del nonno con il forte pacifismo che incarno io. 

Tu parli tanto della tua famiglia? Ma che figlio sei stato e che padre sei?

Di sicuro sono stato il figlio che non si aspettava nessuno. Quello che ha rotto tutti gli schemi della propria famiglia, le aspettative dei genitori, forse i sogni, le speranze. Io ho rotto tutti gli argini, sono stato uno tsunami, da ragazzo ero lo “storto” in famiglia, a scuola, nel quartiere; ma uno storto non disconnesso dall’ambiente in cui viveva. Avevo un mio progetto non troppo definito ma che passava dalla musica e dalla scrittura, fino al teatro e all’uso dell’immagine nelle sue molteplici forme visive, grafiche. Attraverso queste ho voluto costruire un percorso che però non era quello ipotizzato dalla mia famiglia. Ci sono stati scontri con i miei genitori e anche con mio fratello, distacchi dolorosi, forti. Come padre sono stato anche peggio. Non ero preparato a diventare padre, almeno un padre normale. Ma poi hanno prevalso le responsabilità, che insieme all’istinto hanno fatto prevalere in me il desiderio di far crescere delle persone che fossero cittadine a modo, anzi dai, a modino. 

Ma la musica è stata compagna e grande amore della tua vita…

La musica è stata un fattore di impatto forte su di me, fin da bambino. Tra i ricordi più cari che ho c’è sicuramente quello delle fiabe sonore. Dei grandi album con un 45 giri che si ascoltava con il mangiadischi, album che erano corredati di disegni meravigliosi, di testi scritti da grandi penne e che venivano interpretati da attori di grande livello. In quelle fiabe sonore, per me, c’era già dentro tutto, con un coinvolgimento di tutte le sfere della comunicazione che mi interessavano. Di sicuro quelle sono le prime musiche che mi hanno segnato. Poi possiamo metterci tutti i 45 giri del primo rock and roll italiano: Celentano, Little Toni. Poi la grande musica internazionale, come i Beatles, i primi e più grandi sperimentatori della storia. Se penso a “Tomorrow Never Knows” e rifletto su quei suoni stranissimi ricavati da nastri rovesciati, penso davvero che nella musica e con la musica tutto sia possibile e che quello fu uno stimolo immenso. Senza parlare di “Elaonor Rigby” e al film “Yellow Submarine” un esperimento di animazione pazzesca combinata con della fotografia psichedelica. Comunque quello dei Beatles era un disco strepitoso che mi coinvolgeva emotivamente, tanto da spingermi a testarmi. Come quando registrai la mia prima incisione, e mio fratello la fece sentire ai miei che non mi applaudirono. Nessuna standing ovation, ma per me fu uno stimolo. E forse è stato meglio così. Non amo le famiglie che esaltano i propri figli, facendo apparire che sono i migliori dappertutto, facilmente, come se la vita fosse una passeggiata. 

Per chiudere, due ultime questioni. Quella prima tournée in Francia e lo straordinario disco inno del pacifismo…

Quella della prima tournée in Francia con i Litfiba fu una scommessa. Parlai con una mia amica francese che studiava a Firenze e le dissi se poteva organizzarci un concerto in Francia. Lei disse che non era una esperta organizzatrice ma che ci avrebbe provato. Ne uscì una serie di tappe pazzesche, nel circuito underground delle principali città francese, in giro con una Peugeot 504, in sette e con tutti gli strumenti sulla cappotta. Incredibile. Il disco “Il mio nome è mai più” invece scaturì sul finire degli anni 90, sulla scia di quanto succedeva in Kosovo. C’erano state le guerre jugoslave, con immagini devastanti come i bombardamenti di Sarajevo e di Mostar, i civili morti e i tantissimi volontari, anche italiani, che facevano la spola a sostenere le popolazioni in difficoltà. Poi la questione Kosovo e la Nato che decide di bombardare Belgrado e noi, come paese, governato in quel momento dal centrosinistra che diciamo ok, partecipiamo anche noi. Fu così che con Luciano Ligabue decidemmo di scrivere e incidere quel testo, portandoci dietro tanti altri amici con cui collaboravamo già nel circuito rock nazionale. Il brano fu il brano italiano più venduto e ci consentì di raccogliere fondi a sufficienza per permettere a Emergency di costruire tre ospedali in zona di guerra in Kurdistan, Sudan e Sierra Leone. Mettemmo giù il nostro inno contro la guerra, perché noi consideriamo davvero la pace come l’unica vittoria possibile. Spero che quel messaggio valga ancora, soprattutto oggi che ci troviamo di fronte a un appiattimento generale del pensiero. Forse ci vogliono così, ma la differenziazione, anche in politica, è una ricchezza. Dobbiamo ripensare, come popolo, a dove vogliamo andare.