La meritocrazia non può essere un disvalore

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Ho ascoltato con grande attenzione papa Francesco nel suo intervento a Genova, un intervento ricco di spunti, di indicazioni, di proposte: una riflessione sui valori cattolici applicati all’economia e al mondo delle imprese e del lavoro, ispirata a criteri di giustizia e di equità. Don Luigi Sturzo parlava di un’economia senza etica che diventa diseconomia, in molti parlano di una logica del profitto a tutti i costi che sacrifica valori e morale, che aumenta le distanze tra i pochi che hanno molto e i troppi che hanno poco o niente. Francesco, simbolicamente, ha scelto Genova, vertice basso del triangolo industriale italiano, per parlare del mondo del lavoro. E lo ha fatto, ancora una volta, facendo rumore, toccando le coscienze. Quanta differenza, tra le parole del papa, oggi unico governante in grado di comunicare con semplicità, rispetto al silenzio di Taormina, dove i grandi (o presunti tali) della terra, non riescono a trovare accordi e a rasserenare l’opinione pubblica mondiale su tanti dei problemi contemporanei (immigrazione, crisi economica, terrorismo, ambiente)! Eppure, tra le parole del papa, c’è qualcosa che mi sento di mettere in discussione, ed è la sua riflessione, critica, sul tema della meritocrazia. Il papa ha detto che «la tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza» e inoltre che «il talento non è un dono secondo questa interpretazione, è un merito, non un dono». E poi ancora «il mondo economico leggerà i diversi talenti come meriti. E alla fine quando due bambini nati uno accanto all’altro con talenti diversi andranno in pensione la diseguaglianza si sarà moltiplicata». Infine il papa ritiene che in quest’ottica «il povero è considerato un demeritevole e se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esentati dall’aiutarli. È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che le sue disgrazie fossero colpa sua. No la verità è nella parabola del figliol prodigo: il fratello rimasto a casa pensa che l’altro si sia meritato la sua disgrazia, ma il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci».

Le tesi del papa dovrebbero essere, a mio avviso, oggetto di approfondimento e di riflessione. E provo in breve a offrire un contributo. In primis, mi pare esagerato parlare di legittimazione etica della diseguaglianza. La meritocrazia, proprio perché dovrebbe derivare dalla capacità di lavoro, di conoscenza, di approfondimento, di mediazione, dovrebbe essere considerata più come un valore che come un disvalore. Come una questione di riscatto e, proprio perché costruita con fatica e sacrificio, dovrebbe essere profondamente legata a una concezione etica dell’impegno e della mobilità sociale. Non accettare che un sistema, che una progressione di carriera e l’occupazione di ruoli importanti, debbano essere basati sul merito significa, di fatto, legittimare la ricerca del sotterfugio, della fuga dalle responsabilità; significa sostenere che un sistema consociativo, dove pesino più le “cordate” che le qualità, sia un sistema più equo, quasi più “etico” di quello basato sul merito. Non ritenere la meritocrazia una speranza auspicabile, a mio avviso, non solo non annulla le differenze sociali, ma rende meno giustizia alle prospettive di riscatto sociale, che spesso sono state foriere di una maggiore condivisione, in senso cristiano, del progresso. Sul fatto poi, che sia la meritocrazia a far considerare la povertà come un demerito, trovo che si possa giungere al rischio di una banalizzazione pesante del tema “povertà”, connessa spesso più all’avidità e alla sete di potere di vertici che all’applicazione di un concetto basato sul merito. Quali sarebbero le proposte per la riduzione delle differenze? Una totale equiparazione dei salari? Una società piò meno regolamentata? Il governo di un gruppo di illuminati scelti da chi? Non dimentichiamoci che, nelle democrazie occidentali, è stato spesso il merito a consentire l’accesso a ruoli e incarichi di guida e di prestigio anche a persone provenienti dai ceti più poveri e meno abbienti, aumentando il valore dell’esempio e dei risultati legati alla fatica e al sacrificio. Ecco perché ritengo le parole del pontefice forse troppo fuori contesto per poter essere condivise.

Lo so e ne sono consapevole: sono troppo piccolo e in basso per poter esprimere un giudizio sui concetti espressi dal papa. D’altronde, questa è la democrazia. Per questo mi piaceva condividere una riflessione. Per una volta, caro Francesco, non sono pienamente d’accordo con te.

Il pasticciaccio “province”

Dovevano essere abolite, invece sono ancora lì, in stato comatoso, svuotate di danari ma non di funzioni. La situazione degli enti province è davvero paradossale, ma rappresenta in modo emblematico un certo modo di intendere il riformismo pasticciato all’italiana. Intanto, alle province è rimasta la competenza su strade e scuole secondarie, e senza risorse non si fanno asfalti, non si installano guard rail, non si sfalcia l’erba sui cigli, non si fa manutenzione ai ponti. Quanto alle scuole, la situazione pare ancora più drammatica: manutenzioni, bonifiche di tetti in amianto, norme antisismiche, sicurezza e ristrutturazioni di edifici al servizio di milioni di giovani non possono essere garantiti con la dovuta attenzione. In una recente protesta romana, l’UPI (Unione Province Italiane), ha evidenziato questo stato di fatto che rende tragica l’attività di amministratori volontari, eletti come in un ente di secondo grado dai colleghi sindaci e consiglieri comunali del territorio dalla provincia. Anche su questo passaggio, mi permetto un inciso. Oggi un presidente della provincia, che è un sindaco di un comune, deve svolgere un compito di altissima responsabilità senza neanche avere un rimborso per pagarsi un’assicurazione. È davvero una cosa triste. Nella capitale e negli ambienti parlamentari, il tema delle amministrazioni provinciali pare essere uscito dai radar e dagli interessi delle commissioni e dei gruppi: semplicemente non se ne occupa più nessuno. E tutto resta nel pantano. Resta nel pantano la politica, restano nel pantano funzioni non esercitabili senza risorse, restano nel pantano alcune migliaia di dipendenti dal presente incerto, che restano lì, a prendere lo stipendio senza sapere cosa e come debbano fare, senza una prospettiva di futuro certo o chiaro. In questo vuoto tragico, mi aspetterei un gesto di grande responsabilità da parte del presidente Mattarella: da garante della costituzione qual è, invii un messaggio alle camere e impegni i parlamentari a partorire un progetto che possa rifinanziare le funzioni fondamentali delle province. La politica italiana faccia una cosa seria: o si aboliscano definitivamente o si ridia dignità a questi enti locali risuscitati, anche se menomati.

Sulla legittima difesa, meglio niente o meglio piuttosto?

Il disegno di legge votato alla camera sulla legittima difesa pare rispondere a una esigenza manifestata da cittadini sempre più preoccupati per il tema della sicurezza. Fin qui niente di male: che il legislatore si faccia interprete di un problema, cercando di trovare una soluzione a una tematica sentita, pare doveroso. Quello su cui riflettere è, però, la qualità della risposta. Il disegno di legge approvata l’altro giorno, infatti, pare creare ancora più confusione sul tema della legittima difesa. Perché? Perché non chiarisce le fattispecie e le casistiche e, ancora una volta, rimanda a dei parametri opinabili. Da un lato, la questione delle ore notturne, pare spiegabile con una ragione di “visibilità”. L’oscurità di sicuro non rende facile l’individuazione di un minore o maggiore grado di pericolo portato da intrusi che si siano introdotti furtivamente in una abitazione.

Anche l’ex procuratore di Venezia Carlo Nordio ha cercato di spiegare che la norma non avrebbe contraddizioni, dichiarando: C’è un espressione disgiuntiva, un “ovvero”, che significa una cosa molto semplice per noi tecnici del diritto. Tu puoi difenderti in tempo di notte, ovvero in tempo di giorno, se c’è una violazione di domicilio fatta con l’inganno, travisata in volto, con minaccia o armata. La norma è chiara: di giorno può entrare un medicante o un ragazzo che ha perso il pallone in giardino e quindi non posso reagire sparando. Se invece uno entra di giorno travisato in volto o con l’inganno la legge prevede che si possa comportarsi come in tempo di notte. Quindi le polemiche su questo fatto le trovo assurde”. (Fonte Radio24)

Dall’altro lato, però, (scuserà noi uomini non di legge lo stesso Nordio) apre il classico spazio alle interpretazioni: non è detto che sia legittima la difesa nei confronti di assalitori che si muovano in pieno giorno, alla luce. Chi stabilisce il confine della minaccia e dell’arma? E già qui si apre un problema non da poco.

C’è poi una questione che cozza in modo drammatico con lo stato di diritto. Quando vedo deputati con in mano cartelli con scritto “la difesa è sempre legittima”, mi vengono i brividi. Se un barbone ubriaco con un bastone entrasse, per non so quale motivo, in casa mia in cerca di cibo e spaventasse o minacciasse la mia famiglia comodamente al riposo in camera da letto, avrei o no il diritto di sparargli e togliergli la vita? L’uomo sarebbe armato (bastone) ma sarebbe in condizione di uccidermi? Cioè la difesa sarebbe proporzionata all’offesa? O basterebbe il fatto di aver violato il mio domicilio per mettermi in condizione di difendermi anche sparandogli? E il mio status psicologico al momento dell’irruzione, di giorno e di notte, permetterebbe a un giudice di scagionarmi dall’accusa di omicidio?

Capisco di certo la spinta a una tutela del diritto alla sicurezza del cittadino, ma pensare di tornare al far west confesso che mi spaventa. Anche per portare un’arma occorrono fermezza d’animo e di psiche e con la leggerezza con cui si fanno le cose in questo paese corriamo il rischio di vederci sfuggire di mano un problema che, secondo me, con i dovuti investimenti, le forze dell’ordine e di polizia potrebbero gestire al meglio. Siamo sicuri che una pistola in ogni casa sia la risposta? O potrebbe generare problemi in più?

Io resto del mio avviso. Solo la certezza della pena può garantire un maggior rispetto delle leggi e una maggiore fiducia dei cittadini nei confronti del sistema giustizia di questo squinternato paese.

5 maggio 2017