Volenti o nolenti, il tema dell’immigrazione oggi è diventato non un tema qualunque, ma il tema prioritario che la politica deve affrontare. Lo si connette a tutto: alla crisi economica, alle guerre e alle relazioni internazionali, alla crisi sociale, morale; di fronte a qualsiasi cosa ecco che spunta la questione, mediata, urlata, sparata. Però arriva. Ormai la stragrande maggioranza degli italiani la pensa così: questi migranti arrivano superando il Mediterraneo a bordo di carrette del mare o i confini porosi dell’Est Europa, e, per carità di Dio, hanno coraggio e vivono una traversia da panico. Però non sappiamo chi sono, eppure vengono accolti, ospitati, collocati in strutture. La gestione costa molto, ma gli si garantisce un letto, una doccia e un pasto caldo tutti i giorni, cose che magari mancano a gruppi di italiani sempre più oppressi da una povertà diffusa cui sembra difficile porre rimedio. Eppure? Eppure ci sono una miriade di fattori che fanno pensare che questo fenomeno, irreversibile, storico, naturale, sia oggi un problema che ha superato ogni limite di sopportazione. Perché? La crisi, in primis, acuisce la percezione negativa del fenomeno. Sono troppi, li manteniamo, non portano valore aggiunto alle comunità che li ospita, sono gestiti da cane, in modo burocratico e lento, non si integrano, alimentano la delinquenza, sui barconi ci sono i terroristi, fanno paura e aumentano il senso di insicurezza.
Quante di queste affermazioni siano vere, interamente, o parzialmente, è difficile dirlo, ma non ci si può esimere da fare considerazioni di ordine politico e amministrativo se si vuole cercare di cogliere le modalità per gestire una situazione che rischia di sfuggire di mano alle istituzioni e alle società ospitanti.
La prima è che il peso politico della gestione dell’emergenza profughi è stata scaricata su amministrazioni locali non in grado (per i pochi strumenti a disposizione) di contenere la portata e i riflessi del fenomeno. Il governo chiede supporto e comprensione ai territori, ma non si rende conto dei tanti problemi che attanagliano i territori stessi.
Lasciando da parte i sentimenti di pietà cristiana (effettivi, reali, ma non è con quelli che si fanno i bilanci e le politiche delle pubbliche amministrazioni), un amministratore o un politico pragmatico dovrebbero partire da una domanda: chi sono gli utenti finali della gestione del fenomeno migratorio? Con chi occorre effettivamente misurarsi per cogliere il senso e l’efficacia delle politiche di accoglienza? Si potrebbe dire, con i profughi stessi: ma sarebbe un sottintendere una realtà molto, molto più complessa.
Possiamo negare che una struttura di ospitalità possa avere ripercussioni sull’ambiente esterno? No, non si può. Non vale solo per gli immigrati. Pensiamo ad esempio a un paese che si veda collocare una struttura per recupero tossicodipendenti, o per minori affetti da vari disagi. Si tratta di qualcosa che cambia (non necessariamente stravolge) la routine di un paese, di una comunità. Lo stesso vale per un paese chiamato a ospitare una, più o meno ampia, struttura di accoglienza profughi. Quando poi si fanno scelte scriteriate, come per esempio riempire ex basi militari con un migliaio di richiedenti asilo, quando queste ex basi sono collocate in territori abitati da qualche centinaio di cittadino, si creano squilibri evidenti. Possibile che non ci pensi nessuno?
Non credo sia piacevole vedere questi ragazzi bivaccare per le strade. Non credo sia piacevole vederli costretti (magari da qualche racket criminale) a stanziare davanti a bar e supermarket a chiedere l’elemosina con insistenza. Non è piacevole vederli di notte in bicicletta lungo pericolosissime strade statali. E nemmeno sentire crescere il senso di incertezza, di insicurezza e di rabbia dei propri cittadini. Gli amministratori locali sono lì, proprio nel mezzo: tra la domande legittime dei propri concittadini e le richieste, altrettanto legittime, delle istituzioni centrali. Il problema è che chi di dovere (le istituzioni centrali) non ha ancora trovato il centro di gravità permanente tra la gestione dell’emergenza e i territori, tra le evidenti problematiche sociali e questi fenomeni che vanno governati, non solo gestiti.
E allora dove sono i problemi? Le tempistiche per la definizione della domanda di asilo sono troppo lunghe. Possibile che non si trovino formule più rapide? Possibile che non esistano banche dati internazionali in grado di rendere più semplici controlli, verifiche, definizioni delle pratiche? C’è poi un problema chiarissimo di politica internazionale e di rapporti: un’Europa che scarica sui paesi mediterranei, di frontiera, la piena gestione del fenomeno è un’Europa irresponsabile, irrispettosa. La scarsa chiarezza di leggi e normative poi, tipica del nostro paese, rende imbarazzante e tortuoso ogni percorso gestionale. Se non si sa chi deve fare cosa, e come, si crea una giungla di soluzioni proposte, non uniformi, non trasparenti, non semplici, che genera confusione, difficoltà di coordinamento e di condivisione di buone prassi.
Se ci sommiamo una politica urlante e che non sa analizzare in modo acritico e oggettivo la portata dei fenomeni, facciamo bingo. Si protesta, ci si incazza, si impreca contro il sistema, ma intanto i barconi continuano ad arrivare, i prefetti continuano a collocare richiedenti asilo, cooperative continuano a gestire. Ma non si giunge mai al cuore del problema.
Fossi nel ministro degli interni, costruirei una commissione ad hoc fatta di esperti di vari settori (sociologi, psicologi, criminologi, forze dell’ordine, rappresentanti delle istituzioni) e proporrei un protocollo operativo sperimentale da sottoporre a tutti i comuni e le istituzioni italiane. Più chiarezza, più uniformità, più organicità delle strategie, potrebbero essere un punto di partenza efficace per gestire un fenomeno che rischia, inevitabilmente di tradursi in un’emergenza sociale.