L’elezione del presidente della repubblica si è conclusa come forse quasi tutti i partiti auspicavano: con un reincarico a Mattarella che, se da un lato rappresenta una garanzia di stabilità e di saggezza alla guida del Colle, dall’altra segna le campane a morto per il sistema dei partiti e per i suoi leader. Il reincarico a Mattarella, pur non escluso dal dettato costituzionale, segna sicuramente una tendenza preoccupante ma la cosa peggiore è il modo in cui ci si è arrivati, tra leader, o presunti tali, che bruciavano candidature manco fossero gratta e vinci, e si rivelavano incapaci di gestire e trovare una quadra come sarebbe stato non auspicabile, ma obbligatorio. Il centrodestra, che pareva compatto, si è liquefatto come neve al sole alle prime difficoltà: prima tenevano botta sulla improponibile candidatura di Berlusconi, poi lanciavano una terna (Pera, Moratti, Nordio) buttandola in pasto ai leoni denotando scarsa chiarezza di proposta e sicuramente non avendola condivisa con nessuno, come il bambino che deve decidere chi gioca perché porta il pallone da casa. Salvini si muoveva in modo dilettantesco, da un lato cercando candidati a destra e a manca senza costrutto, dall’altro lasciando alla sua bulimica comunicazione sociale il compito di spiegare, via tweet, quello che stava facendo. La forzatura sulla Casellati è stato un capolavoro di incapacità: forzare la mano sulla presidente del Senato senza avere nemmeno i voti del suo partito, ha rivelato incapacità di cogliere umori e sensazioni di un parlamento sempre più insofferente a queste leadership forzate. Di certo nemmeno a sinistra sono emersi dei fenomeni da contesto: Letta muto e attendista, alla fine ha voluto preservare il Pd delle tante correnti da danni peggiori, i Cinque stelle multi-anime hanno evidenziato una pluralità di posizioni degna di una polveriera: persino un giornalista ha detto che ormai esistono almeno due posizioni ufficiali, quella di Conte e quella di Di Maio. Del primo, si è compreso che avrebbe accettato tutto fuoriché la naturale soluzione di promuovere Draghi al Quirinale; mentre il secondo raccoglieva il malcontento dei di delusi e i richiami al moderatismo del grillismo di governo. Nel campo dell’inconsistenza si sono mossi i centristi, che hanno giocato una partita al ribasso tra un candidato che avrebbero gradito, Casini, e il blocco a quelli sgraditi; Matteo Renzi, che ha denotato ancora una lucidità purtroppo non supportata dalla forza dei numeri, e altre pattuglie di parlamentari che via via si aggregavano intorno al tavolo delle trattative. Credo infine sia parso a tutti strumentale il richiamo a una donna a presidente della repubblica, bruciando diverse candidature nel novero delle indiscrezioni e giocando nella penultima notte una carta, quella del capo dei servizi segreti, Elisabetta Belloni, che deve aver fatto rizzare i capelli a tanti se al solo annuncio è stata polverizzata dai veti incrociati. Quella che poi è stata definitiva la saggezza del parlamento, va interpretata invece come l’ecatombe dei leader e segna la frammentazione di un quadro politico veramente imbarazzante per incapacità di controllo e gestione, autorevolezza e indirizzo strategico.
Pare che solo l’intervento di Draghi sia riuscito a far cambiare idea a Mattarella, un intervento che, di fatto, apre al commissariamento del sistema politico italiano, imbrigliato ormai dalla competenza di tecnici che suppliscono allo scadimento e ai limiti di un potere partitico sempre meno rappresentativo.
La sostanza è che, dietro la buona notizia (Mattarella presidente, ma non il modo in cui è stato rieletto) c’è la fine dei metodi e della sostanza del leaderismo nazional populista incarnato dai presunti leader contemporanei. In un mare di sconfitti, è davvero difficile trovare un vincitore oggi. Ma è anche difficile ipotizzare una via d’uscita dalla tragedia che stiamo facendo vivere a questa stanca e demotivata democrazia.